I quadri non finiscono mai
Quando dei quadri ti piacciono – ma ti piacciono d’istinto, li trovi da subito avventurosi e brillanti, acuti e interroganti, colti soprattutto, ed eseguiti con un’acribia tecnica che lascia decisamente ammirati – che cosa fai?
Se sei un uomo fortunato, e attorno ad essi non devi scrivere una presentazione, ma puoi semplicemente godertela senza secondi fini, allora passi un’oretta o due di quelle veramente levitanti, speciali: come quando ti trovi a visitare un museo di provincia e scopri cose che mai ti saresti aspettato: uno sconosciuto allievo di Bellini che impagina, su una breve tela, un paesaggio rarefatto e nitidissimo, di quelli in cui vorresti immediatamente penetrare; o un Guardi mai conosciuto che ti mette subito a contatto con gli splendori mediterranei di un Monet; o una piccola parrocchia asolana di Gino Rossi che respira in un’aria verd’azzurra davanti alla quali tu dici: “Ecco, valeva la pena venire fin qui soltanto per questo”.
Ma se invece fortunato non sei, e devi scrivere cose, esprimere opinioni, cosa fai?
Abitualmente io procedo così: prima constato, poi rifletto, poi concludo meglio che posso, sperando nella buona sorte, quella che talvolta, per strade oblique, ti permette di accostare idee che alla fine paiono avere un senso compiuto – anche se ovviamente discutibile, e quindi impugnabile come (quasi) tutto ciò che è umano. Alcune domande – che nascono per constatazione – serviranno forse ad approssimarci all’essenza di questa pittura, che d’altro canto è talmente sostanziata di segno, da essere probabilmente meglio definibile come una pittura-scrittura.
Sono paesaggi, questi di Palladini?
Se per paesaggi si intendono delle visioni che si allontanano verso un orizzonte, mentre nello spazio così prospettato si collocano monti e colline, acque e pianure, case e città, strade costruzioni e muraglie, cieli blu azzurri rossi gialli e magari anche verdi, come in effetti talvolta essi appaiono: allora sì, possiamo anche dire che si tratta di paesaggi.
Ma se dentro questi paesaggi si collocano qua un saltatore con gli sci che sta planando sopra un grande tavolo rococò – senza che ci sia traccia di trampolino o di neve -; là una sorta di girandole che avanzano nel cielo provenendo da non si sa bene dove; da un’altra parte una strada che ti fa venire in mente una tastiera di pianoforte, su cui peraltro si appoggia un corridore ciclista, mentre luci da contraerea sembrano cercare in cielo invisibili aeroplani: invisibili lì, perché invece nei cieli di altri “paesaggi” essi volano più o meno tranquilli, provenienti dai tempi della prima guerra mondiale: assieme a barche a vela e ad altri oggetti non meglio identificabili nella loro natura, coni volanti o concrezioni geometriche di luce, chi può dire: e via e via, potremmo elencare un’infinità di altre “stranezze”.
In parole diverse: si tratta di paesaggi contraddetti – rispetto al senso tradizionale del termine – da un’infinità di elementi figurativi accostati tra loro sembra per lo specifico piacere di mettere in imbarazzo chi guarda: il quale allora, per proseguire nel suo tentativo di interpretazione, potrebbe correggere il tiro, e dire che, in fondo, si tratta di scenografie teatrali: sullo sfondo delle quali, è ovvio, si raccontano storie “fantastiche” che, proprio per essere tali, non mettono limiti ad un accumulo di dati il quale non intende sottrarsi – perché dovrebbe? – ad alcuna possibilità dell’immaginazione. Perché l’immaginazione può bensì essere ampiamente irrealistica, ma non è mai disordine estetico, se il suo spazio venga minutamente organizzato in una consequenzialità visiva che non ha falle, non ha cadute, dato che nei palcoscenici ferreamente organizzati di Palladini c’è bensì agio per lo “strano”, per il fantasioso, ma mai per il casuale: qui il fantasma visivo più improbabile deve sempre consuonare con tutti gli altri elementi della composizione. Specie davanti a certi brani che inscenano fughe prospettiche alla Sant’Elia – futuristiche dunque, ma di un futurismo continuamente intersecato di elementi postmoderni, con un effetto complessivo di tono metafisico – mi è venuto in mente il Teatro Olimpico del Palladio, a Vicenza. Cosa di più preciso, matematico, bloccato, appunto metafisico, di quella scenografia miracolosa? E nello stesso tempo cosa di più ideale, utopico, impossibile? Racconti fantastici, allora, questi di Palladini: connotati dalla lucidezza acuminata che hanno talora i sogni.
Ma riflettiamo ancora.
Perché, dappertutto, queste grandi quadrettature? Perché tante minuziose puntinature e perché, continuamente insorgente, questa presenza di elementi geometrizzanti, tamburi paracarri o boccaporti di navi che siano, che potremmo riferire all’ambito del design?
Questi racconti, scenografie, paesaggi, non saranno piuttosto dei progetti?
Non di strade, anche se qui ci sono molte strade; non di fabbriche o fortezze, anche se qui ci sono fabbriche e fortezze; non di città ideali, anche se tutta una serie di “racconti costruttivi” potrebbero alludere a “città ideali”; non di paesaggi antropizzati, infine, anche se certe immagini possono far pensare a questo.
No, questi quadri a me sembrano piuttosto i singoli capitoli di un’unica, straordinaria, utopica intenzione: quella di progettare il mondo.
Dentro il quale l’uomo può vivere in una dimensione sostanzialmente ludica e dove – se l’ordine appare talvolta così congestionato da confinare con una sorta di ironico, e magari sottilmente angoscioso, disordine – rimane però vivissima l’idea del progetto.
Con un impegno e una consapevolezza che è possibile rendere visibili solo dentro i confini dell’arte, utopia necessaria a tener desta, contro tutto, la speranza.