Spazio Arte Bejaflor
Spazio Arte Bejaflor / maggio 2, 2017Non si può certo dire che il pittore modenese Alessandro Palladini – in questa Read More
Non si può certo dire che il pittore modenese Alessandro Palladini – in questa mostra portogruarese presso lo spazio arte Bejaflor – si nasconda dietro a un dito.
Al contrario, egli esibisce immediatamente tutta la sua cultura figurativa da un lato, e dall’altro, e proprio attraverso di essa, tutta la sua perfezione esecutiva, la quale può essere distinta dal concreto delle sue convolute, labirintiche, insomma estremamente complesse e perfino capziose figurazioni solo per amor didattico, solo per condurre lo spettatore a controllare prima di tutto una sapienza del “fare”, che sembra essersi esercitata su infiniti esempi della storia dell’arte, dalle prospettive rinascimentali di un Antonello, alle volute barocche di un Borromini, dalle fantasie architettoniche di Sant’Elia, alle torri metafisiche di De Chirico, senza dimenticare, en passant, Klee e Picasso, Max Ernst e Mondrian, Kandinskij e Steinberg, e infine chi più ne ha più ne metta.
Certo, introdotta così la faccenda potrebbe far venire in mente almeno due sospetti.
Il primo: si tratterà di una gran confusione? Ci troveremo davanti a un pittore che assembla particolari solo per il gusto di meravigliare, di far vedere quanto è bravo ad esibire certe capacità tecniche?
E l’altro: ma tutto questo riecheggiare, non disperderà inevitabilmente il nucleo più intimo di una personalità, che rischia così di apparire sfocata, poco determinata?
Di fatto il primo sospetto svanisce non appena lo spettatore si metta davanti a questi quadri: perché quelli che noi abbiamo per un attimo, e sempre per amor pedagogico, considerato particolari – barche e barchette, navi e navicelle, aeroplani e case, arcobaleni e giocattoli, omini e bambini, strade stradine stradette e autostrade, vetture e carri armati, contrafforti eliche e girandole, nudi e monumenti, sciatori e tavolini, fabbriche e lenzuola al sole, ombrelli e bambini con trottole, mari e cieli, cannoniere e biciclette da corsa, tigri e alberelli e via e via e via – sono concatenati in uno spazio talmente calcolato e preciso – talmente, si potrebbe dire, matematico, se il termine non suscitasse l’impressione sbagliata di eccessiva meccanicità – da assumere immediatamente l’unità e la fondatezza di un “paesaggio”, anche se, certo, di un paesaggio in cui la componente fantastica è centrale, tale da rimandare continuamente non alla realtà quotidiana, piuttosto ad una sorta di ipermondo nel quale molte cose sono possibili, che qui non lo sono più, o non lo sono mai state: un mondo in cui la meraviglia e la fascinazione possono talora sfiorare l’incubo o il grottesco, comunque un mondo ancora umano perché umanamente pensabile, metafora di ogni interrogativo cui la nostra vita, la nostra quotidianità ci ponga di fronte.
Ne certamente è un caso che questi quadri siano sempre ingabbiati in quadrettature che suggeriscono il disegno progettuale: perché in effetti, come altrove ho già affermato, questi “paesaggi” possono anche essere concepiti come una sorta di utopica e grandiosa volontà di progettare il tutto, un’affascinante proiezione del desiderio umano di abolire il caso, l’imprevisto, e perciò la morte: ciò che tuttavia, nell’opera, viene immediatamente contraddetto dall’infittirsi di infiniti phainomena cui si contrappone solo la determinatissima volontà unificatrice dell’artista.
Sicché la sua personalità – e veniamo qui al secondo sospetto cui prima si accennava – si definisce, tutt’altro che genericamente, come quella di un intellettuale che con i suoi mezzi esprime molto efficacemente la condizione del contemporaneo uomo occidentale: che è la condizione di chi, avendo perso tante certezze che in passato potevano animarlo, si va chiedendo di quali contenuti non meramente contingenti possa ancora riempire la sua vita, dato per scontato che siano stati risolti – una volta per tutte? – i problemi della pura sopravvivenza.
Ho detto dell’uomo occidentale poiché è pur vero che in altre parti del mondo le cose stanno assai diversamente, e basterebbe a questo proposito ricordare la tragedia quotidiana dei migranti.
Ma se la questione della sopravvivenza sarà mai risolta per tutti a questo mondo – ed è un’ipotesi che si può fare, come si può fare anche l’altra, quella che risolverà definitivamente ogni problema attraverso una morte atomica universale – è proprio la questione dei fini che scatterà in primo piano, come già oggi del resto, almeno per chi si augura che il risultato finale della storia umana non sia l’apocalisse.
Proprio di questi temi parla, a mio giudizio, la pittura di Palladini: esattamente attraverso quella sorta di progettare utopico, che è, ancora a mio giudizio, la sostanza del suo discorso.
Giancarlo Pauletto